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Sui rischi dell'AI nella didattica, le competenze degli studenti e insegnare a imparare
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Sui rischi dell'AI nella didattica, le competenze degli studenti e insegnare a imparare

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale irrompe nei contesti educativi con promesse rivoluzionarie, è urgente fermarsi a riflettere.

Negli ultimi mesi, ogni consiglio di classe, ogni collegio docenti e ogni formazione insegnanti ha una parola d’ordine: intelligenza artificiale. Un entusiasmo contagioso, a volte ingenuo, spesso inevitabile. Le potenzialità sono innegabili: personalizzazione dell’apprendimento, accesso immediato all’informazione, strumenti innovativi per l’inclusione. Eppure, come accade spesso con le grandi rivoluzioni tecnologiche, la domanda da porre non è “cosa può fare l’IA per la scuola?”, ma “cosa fa l’IA alla scuola?”.


Fonte: Chat GPT


La didattica dell’intelligenza artificiale – o, meglio, la didattica nell’epoca dell’intelligenza artificiale – non può limitarsi all’insegnamento tecnico di come scrivere un prompt efficace o a come correggere con ChatGPT. Il vero nodo è pedagogico e cognitivo: come garantire che l’uso degli LLM (Large Language Models) non disabitui gli studenti allo sforzo, alla riflessione, al dubbio, alla lentezza della comprensione?

Diversi studi (tra cui il recente Impact of Guidance and Interaction Strategies for LLM Use on Learner Performance and Perception e AI Meets the Classroom: When Do Large Language Models Harm Learning) mostrano che la disponibilità di IA testuale aumenta l’uso sostitutivo (copio la risposta) ma non sempre quello complementare (chiedo spiegazioni). Un cambio di postura mentale profondo: si scavalcano le tappe dell’apprendimento per arrivare direttamente al risultato, saltando l’errore, il tentativo, la fatica. E con essi, si rischia di indebolire funzioni cognitive fondamentali: la memoria di lavoro, la metacognizione, la flessibilità mentale.


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La didattica, invece, dovrebbe farci sostare nella complessità, non semplificarla eccessivamente. Dovrebbe educarci a dubitare, non solo a rispondere. Se gli studenti non sviluppano più il gusto della scoperta, il senso del limite, la capacità di porsi domande buone, l’IA diventa un oracolo che ipnotizza, non un alleato che stimola.

Non si tratta di demonizzare la tecnologia. Si tratta di progettare un’educazione cognitiva all’uso dell’IA, che sviluppi pensiero critico, autonomia, controllo esecutivo e intelligenza emotiva. Servono laboratori in cui gli studenti confrontano il loro pensiero con quello dell’IA. Diari metacognitivi in cui riflettono su quanto hanno appreso davvero. Attività che cominciano senza IA per poi usarla come confronto, non come stampella.


Fonte: Studio 2025 - AI Meets the Classroom: When Do Large Language Models Harm Learning?


Ma per fare questo, serve molto più di un aggiornamento software o di una guida tecnica. Serve una ridefinizione della professionalità docente. Gli insegnanti oggi sono chiamati a diventare educatori cognitivi, formatori metacognitivi, facilitatori dell’uso critico delle tecnologie. Eppure, troppo spesso vengono lasciati soli, o peggio, addestrati a usare strumenti, ma non a capirne le implicazioni psicologiche. Integrare l’IA a scuola significa anche investire nella formazione profonda di chi educa.

Anche le disuguaglianze rischiano di aumentare. Non tutti gli studenti sanno usare l’IA con lo stesso spirito critico. Chi ha alle spalle contesti culturali più solidi è più capace di mettere in discussione le risposte ricevute, di non prendere tutto per oro colato. Chi non ha queste risorse rischia di diventare utente passivo, sempre più dipendente dall’algoritmo. In questo senso, l’IA può diventare un moltiplicatore delle disuguaglianze cognitive ed epistemiche, e non un correttore.


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Infine, c’è un problema culturale. Viviamo in una società che ci educa alla performance, alla velocità, alla risposta pronta. L’IA si adatta perfettamente a questo immaginario. Ma la scuola dovrebbe fare il contrario: educare al rallentamento, alla profondità, all’imparare a imparare. Se la scuola abdica a questo ruolo, se rincorre l’efficienza a scapito della trasformazione, tradisce la sua missione più profonda: formare persone che pensano, non solo utenti che funzionano.

La scuola non può rincorrere l’IA. Deve rallentarla, interrogarla, metterla alla prova. Non per paura del futuro, ma per rispetto del pensiero umano. Solo così la didattica sarà all’altezza della sfida che l’intelligenza artificiale ci pone: non quella di essere più intelligenti, ma quella di restare più umani.

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