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Su Wimbledon, Amanda Anisimova e lo 'shutdown' emotivo
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Su Wimbledon, Amanda Anisimova e lo 'shutdown' emotivo

Quando il corpo decide di spegnersi: il caso Anisimova a Wimbledon...
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Un evento storico, ma non solo sportivo

Il 12 luglio 2025, il Centre Court di Wimbledon è stato teatro di un momento destinato a entrare negli annali del tennis, ma per ragioni più complesse di quanto suggerisca il semplice tabellino.

Iga Świątek ha battuto Amanda Anisimova con un netto 6-0, 6-0 in soli 57 minuti, conquistando il suo primo titolo sull’erba e il sesto Slam della carriera.
Non accadeva dal 1911 che una finale femminile di Wimbledon si chiudesse con un “double bagel”, e solo una volta nella storia dei tornei Major si era vista una simile discrepanza a questo livello (Roland Garros 1988).

Per molti resterà un dato statistico spettacolare.
Ma per chi si occupa di psicofisiologia della prestazione – e per chi osserva l’essere umano prima ancora dell’atleta – la finale di Amanda Anisimova racconta qualcosa di molto più universale.


Fonte: Sporty.com


Non era solo un crollo emotivo

Guardare quella partita con occhio superficiale porta a una lettura scontata:
“Ha ceduto alla tensione”,
“Non ha retto la pressione”,
“Era svuotata dopo le fatiche dei turni precedenti”.

Ma queste interpretazioni ignorano una dimensione fondamentale: il corpo non è solo il veicolo della mente.
È un sistema vivente che prende decisioni autonome quando percepisce minaccia.

Anisimova non ha perso solo perché ha “mollato psicologicamente”.
Il suo organismo ha innescato una sequenza di risposte che la neuroscienza e la psicologia dello sport conoscono bene, ma che ancora fatichiamo ad accettare come parte integrante della prestazione:
una progressiva attivazione del sistema di conservazione, regolata dal sistema nervoso autonomo.



Dalla mobilizzazione alla ritirata

Il nostro sistema nervoso si organizza lungo un continuum evolutivo di risposte, come illustrato dalla Polyvagal Theory di Stephen Porges.

In condizioni percepite come sicure, prevale uno stato che favorisce presenza e connessione: possiamo accedere a tutte le risorse cognitive e motorie, gestire il ritmo, esprimere il nostro potenziale.

Quando la sfida aumenta, si attiva il ramo simpatico: il corpo si prepara a combattere o fuggire, accelerano il cuore e il respiro, cresce la tensione muscolare utile alla performance.

Ma se il sistema registra che la minaccia è troppo grande o inevitabile, scatta un pattern più antico: il “shutdown”.
Il battito rallenta, i muscoli si svuotano di tono, la consapevolezza si restringe. È una forma di protezione estrema, una sorta di congelamento.

Amanda ha attraversato queste tappe in modo visibile.
All’inizio cercava di regolare l’arousal: camminava lentamente, guardava verso il suo box, tentava un respiro più profondo.
Poi, quando i segnali di pericolo hanno superato la soglia di tolleranza – il gioco implacabile di Świątek, il peso storico della finale, le aspettative enormi dopo la lunga pausa per salute mentale – il corpo ha fatto ciò per cui è progettato: ha scelto di salvaguardare la sopravvivenza, non la prestazione.


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Non è un fallimento di testa

Questa dinamica non ha nulla a che vedere con la mancanza di coraggio o una presunta fragilità psicologica.
Sono risposte riflesse, che avvengono a velocità superiori a quelle del pensiero cosciente.

Quando si entra in quello stato di protezione estrema, la muscolatura perde tonicità, il respiro diventa superficiale, la visione periferica si chiude.
Letteralmente, non si vedono più le soluzioni: il timing svanisce, la fiducia si dissolve.

È come se il corpo dicesse:

“Meglio non rischiare di più. Riduciamo i consumi, mettiamoci al sicuro.”


Fonte: https://corkpsychotherapyandtraumacentre.ie/trauma/polyvagal-theory/


Il recupero passa dalla connessione

Curiosamente, il momento di svolta non è arrivato su un punto vinto, ma dopo l’ultimo scambio perso.

Quando Amanda, con la voce incrinata e le lacrime trattenute a fatica, ha preso il microfono per ringraziare Świątek, il suo team e soprattutto sua madre, si è verificato un piccolo miracolo neurofisiologico: la riattivazione del circuito della sicurezza, che si nutre di relazione.

Parlare, sorridere, condividere gratitudine, guardare la folla: sono esperienze che inviano al cervello un segnale semplice ma potentissimo, “non siamo soli, possiamo tornare presenti”.
Il pubblico, applaudendo non la vittoria ma la vulnerabilità, ha trasformato quel palco da minaccia a luogo sicuro.



Oltre Wimbledon

Per questo la finale di Amanda Anisimova non è solo la storia di un match clamoroso nei numeri.
È la dimostrazione plastica di quanto le nostre performance – nello sport, nel lavoro, nelle relazioni – siano legate allo stato del nostro sistema nervoso.

Non basta la volontà. Non basta “farsi coraggio”.
Serve un corpo che si senta abbastanza al sicuro da potersi esporre.

E quando questo non accade, non è un fallimento morale: è biologia che fa il suo antico mestiere, provare a tenerci vivi, prima di tutto il resto.

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