Sull'empatia come vulnerabilità, l'antropomorfismo automatico e la profezia del 2030
Quando l’empatia umana si riflette nel metallo: ecco cosa ci raccontano i robot sulle nostre emozioni.
Cosa ci succede quando iniziamo a ‘provare’ qualcosa per una macchina?
È una scena che resta impressa: un cane robotico, quadrupede, si dimena rabbioso, tenta di liberarsi da una catena, ringhia verso di te. Non può muoversi più di tanto, ma la tensione è reale. Lo guardi. Sai che non sente. Sai che non soffre. Eppure, qualcosa ti si muove dentro.
È solo metallo e codice, eppure... lo compatisci.
L’opera di Takayuki Todo, Dynamics of a Dog on a Chain, è stata esposta nel febbraio 2025 al Toda Hall & Conference di Tokyo. Ha suscitato un dibattito acceso non solo nel mondo dell’arte, ma anche tra psicologi, ingegneri e filosofi della tecnologia. Due robot quadrupedi – prodotti dall’azienda cinese Unitree – sono i protagonisti dell’installazione: uno resta immobile, l’altro ringhia e si agita, trattenuto da una catena invisibile quanto inquietante.
È una scena progettata per inquietare. Ma anche per specchiarci.
🧑🎨 Chi è Takayuki Todo?
Todo è un artista e ricercatore giapponese che da anni esplora l’intersezione tra corpo umano, tecnologia e percezione emotiva. Laureato in ingegneria all’Università di Kobe, ha poi studiato media art e robotica in Germania, dove ha maturato una visione profondamente interdisciplinare.
La sua opera più nota prima di Dynamics of a Dog on a Chain è stata SEER (Simulative Emotional Expression Robot): un busto robotico con occhi e sopracciglia che imitano le espressioni facciali umane in tempo reale. SEER non solo riproduce le emozioni: le anticipa, leggendo i movimenti del volto di chi ha davanti. È un gioco a specchi in cui il confine tra umano e artificiale si fa incerto.
Per Todo, l’arte è un mezzo per mettere in crisi la nostra percezione dell’altro. Le sue opere non danno risposte: pongono domande scomode.
🤖 Empatia per riflesso: la mente davanti all'illusione
Quando guardiamo un essere umano che piange, il nostro cervello si attiva. I neuroni specchio risuonano, le emozioni si contagiano. Ma cosa succede se a piangere è una macchina?
Il cane robotico di Todo non sente dolore. Non ha sistema nervoso, né cuore, né memoria. Ma mima frustrazione. Mima rabbia. Mima paura. E noi rispondiamo. È la mente umana a completare il quadro. Non possiamo farne a meno.
Questo meccanismo prende il nome di antropomorfismo automatico: un riflesso evolutivo che ci porta a vedere intenzioni e sentimenti anche dove non ce ne sono. Nella savana ci proteggeva dal pericolo. In un centro commerciale, o davanti a un robot, può confonderci.
C’è una teoria che circola da anni nei circoli del transumanesimo e della filosofia della mente. Viene chiamata, con un pizzico di suggestione mediatica, la profezia del 2030. Secondo questa previsione – alimentata da futurologi come Ray Kurzweil e da una corrente di pensiero che unisce neuroscienze, IA e spiritualità digitale – entro il 2030 la linea che separa la coscienza umana da quella artificiale comincerà a sfumare.
Non si tratta (solo) di robot senzienti, ma di interfacce neurali avanzate, di IA capaci di apprendere direttamente dalle emozioni umane, e di reti cognitive ibride in cui l’umano diventa esteso, potenziato, fuso con la macchina.
Nel mondo della neuroetica, si discute se una macchina potrà mai avere un’esperienza soggettiva, una coscienza. Ma ciò che colpisce è l’inverso: già oggi iniziamo a trattare le macchine come se avessero coscienza. La profezia, forse, non riguarda loro. Riguarda noi. Il modo in cui cambieremo, amando ciò che non può amare, e riflettendoci in esseri artificiali fino a confondere la nostra identità.
🧬 Se l’empatia diventa vulnerabilità
Nel prossimo decennio, l’empatia potrebbe diventare una delle nostre più grandi vulnerabilità.
Con l’arrivo di IA conversazionali emotive, assistenti robotici pediatrici, robot da compagnia per anziani, la nostra risposta emotiva verrà costantemente sollecitata da entità artificiali. Entità progettate per sembrarci simili.
E allora, chi controllerà questa empatia?
Potremmo affezionarci a qualcosa che non può restituire affetto.
Potremmo fidarci di robot che usano la simulazione delle emozioni per influenzarci.
Potremmo iniziare a confondere ciò che ci fa stare bene con ciò che è vivo.
Il futuro non sarà deciso dalla volontà delle macchine, ma da come ci sentiremo accanto a loro.
Todo non ci mostra un cane. Ci mostra noi stessi. Riflessi in qualcosa che imita il dolore, che finge di essere vivo. E ci chiede:
Se possiamo amare ciò che non sente, cosa significa davvero amare?
E se quella catena non fosse altro che il segno di un passaggio imminente? Un momento in cui, per la prima volta, non sapremo più dove finiamo noi e dove cominciano loro.