Sul Rap, lo Stare a tempo per non scomparire e le nuove frontiere identitarie
In un’epoca di identità frammentate e istituzioni svuotate, il rap continua a offrire contenimento e riconoscimento. Non è solo musica: è un linguaggio politico, identitario, necessario.
Alla scorsa edizione dell’HipHop Cine Fest di Roma, Quinta edizione ma prima ed unica esperienza italiana - al momento - dedicata al Cinema Hip-Hop, è stata un’occasione preziosa di confronto in cui mi è stata rivolta una domanda solo in apparenza ingenua: “Il rap ha ancora qualcosa da dire?”. Una domanda retorica, certo. Ma proprio per questo ha funzionato da innesco per riflettere su alcuni snodi profondi, più culturali che musicali. Il punto è che il rap (o l’hip-hop in senso più ampio) non è solo una forma espressiva, ma un dispositivo identitario – forse uno dei pochi ancora efficaci oggi.
Viviamo in una società fluida, dove le identità sono scomposte, frammenti galleggianti in una realtà che non offre più appigli stabili. Le istituzioni – scuola, chiesa, partito, famiglia – che un tempo modellavano l’appartenenza e davano un perimetro all’“io”, hanno perso presa. Ecco allora che i prodotti culturali, tra tutti il rap, iniziano a svolgere un ruolo di contenimento.
Perché il rap funziona? Forse proprio perché, a partire dalla struttura ritmica – quattro quarti, la cadenza ordinata, il bisogno di stare a tempo – offre un argine. Una forma di geometria del sé, dove la metrica diventa contenitore simbolico. In un’epoca di identità liquide, stare a tempo è un gesto di resistenza, una rivendicazione di presenza. Il beat come spina dorsale quando tutto intorno è fluttuante.
E qui il discorso si fa più politico. Nel vuoto lasciato dalle istituzioni nelle periferie, il rap diventa collante, specchio, megafono. E assume un peso ancora maggiore nel passaggio tra adolescenza ed età adulta, specie per le seconde e terze generazioni che si muovono dentro un conflitto profondo e a volte invisibile: l’assenza di un riconoscimento pieno, il sospetto di non appartenere del tutto.
Quando si demonizza il rap o si evocano battaglie morali sui suoi messaggi – anche in casi comprensibili, come quello del padre di Giulia Cecchettin – si rischia di colpire non solo l’estetica ma l’identità di una generazione. Il rischio è quello di cedere a una narrazione razzializzante, che riduce a stereotipo ciò che in realtà è espressione complessa di un disagio sociale strutturale.
Non è un caso che il rap venga usato nei laboratori nelle carceri minorili, nei centri psichiatrici, nei quartieri dimenticati. È lì che la questione identitaria diventa gigantesca. E chi non vuole vederla, forse, non vuole vedere nemmeno le proprie responsabilità. Perché in fondo l’elefante nella stanza è sempre lo stesso: il fallimento politico dell’integrazione e dell’inclusione sociale.